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OPEN INNOVATION E CROWDSOURCING: CONDIVISIONE DI STRATEGIE DI SVILUPPO TRA RICERCA ED IMPRESA

Valentina Garonzi
Laurea Magistrale in Economia e Legislazione d’Impresa
conseguita l'11 settembre 2015

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“Un mondo pieno di opportunità e di rischi
attende coloro che hanno il coraggio di compiere questo viaggio”

Henry Chesbrough


Il coraggio di innovare, di cambiare, di evolvere verso nuove occasioni di sviluppo con i metodi tradizionali sembra essere oggi un passaggio quasi scontato, inevitabile per la sopravvivenza dell’impresa. L’importanza fondamentale della ricerca ed innovazione quale valore strategico di competitività delle imprese e dei sistemi economici è, infatti, un dato consolidato dalla convergenza di innumerevoli studi, analisi, indagini e comparazioni internazionali. Nella letteratura economica si afferma come la capacità delle imprese di offrire al mercato qualcosa d’innovativo, in termini di idea, prodotto o processo produttivo, sia fattore determinante per il raggiungimento di importanti risultati economici. Muovendo da queste prime considerazioni, è possibile comprendere come nell’attuale sistema economico la vera sfida sia invece quella di accedere ad un sistema di collaborazione aperta in rete che coinvolga imprese, istituzioni, persone, mercati. E’ la rivoluzione culturale dell’Open Innovation, un’onda violenta che si riflette su scala mondiale, cancellando le distanze, trasformando vincoli in opportunità. La forza della massa e dell’intelligenza collettiva diventano il fattore trainante del nostro sistema. Per fare innovazione, e perché questa si traduca in valore di capitale e di mercato, è essenziale la condivisione della conoscenza; per agire nel mondo competitivo e globalizzato dell’età odierna dobbiamo però comprendere come governare questi fattori con le nuove tecnologie. In quest’ottica, il metodo del Crowdsourcing assume una rilevanza notevole: nuova forma di ricerca collaborativa, si propone come strumento per velocizzare il trasferimento della conoscenza dall’esterno attraverso una partecipazione diffusa d’idee, talenti e creatività. L’Open Innovation e il Crowdsourcing offrono pertanto interessanti prospettive nella comprensione dei processi di sviluppo aziendali, essendo oggetto di grande attenzione sia in ambito accademico che professionale.
Il termine Open Innovation è stato utilizzato per la prima volta nel 2003 da Chesbrough nella sua ormai famosissima pubblicazione “Open Innovation: The new imperative for creating and profiting from technology” (Chesbrough H. W., 2003).
Partendo dall’analisi di casi reali, egli ha osservato come molte imprese siano incentivate ad acquisire risorse tecnologiche dall’esterno piuttosto che a realizzarle internamente e, allo stesso tempo, siano spinte a cedere conoscenza per migliorare i propri ritorni economici ed ampliare le potenzialità di sviluppo.
Sulla base di queste considerazioni egli ha elaborato la prima definizione del fenomeno, individuandolo come “l’uso intenzionale dei flussi interni ed esterni di conoscenza per accelerare rispettivamente l’innovazione interna ed ampliare il mercato verso l’utilizzo esterno dell’innovazione. Il paradigma dell’Open Innovation assume che le imprese possano e debbano utilizzare le idee provenienti dall’esterno allo stesso modo di quelle interne, ricercando nuovi percorsi di mercato per migliorare la tecnologia” (Chesbrough H. V., 2006). Ciò che ha conferito grande rilevanza a quest’affermazione è che per la prima volta si è attribuita un’unica denominazione a un insieme di sviluppi. In realtà, il fatto che la creazione di relazioni positive tra imprese ed attori esterni possa indurre effetti positivi sulle performance aziendali non era un concetto del tutto nuovo. Già dagli anni ’80, infatti, le grandi aziende, avevano introdotto pratiche d’innovazione e collaborazione per contrastare la sempre maggiore competizione. Di pari passo, la letteratura accademica aveva posto l’accento sulla necessità di teorizzare nuovi modelli di business che potessero accogliere e organizzare questi nuovi modi applicativi. A Chesbrough si deve quindi il ruolo di aver raggruppato tali tendenze in un concetto unitario, ponendo le basi per successive implementazioni. Nel corso degli anni, quindi, il fenomeno ha assunto una notevole importanza, tanto da essere via via introdotto nelle logiche applicative aziendali. Le imprese stanno evolvendo le loro modalità di affrontare il cambiamento; la conoscenza e le informazioni fluiscono sempre più rapidamente tra persone ed organizzazioni tanto che le attività legate all’innovazione si stanno via via caratterizzando a livello globale. L’idea che un’azienda possa aumentare il proprio valore grazie ad un percorso strategico di apertura verso l’ambiente esterno è alla base del paradigma dell’Open Innovation. Secondo tale impostazione, riconfigurare il modello di business ponendo maggiore attenzione alla ricerca di competenze e funzioni fuori i confini organizzativi permette il conseguimento di una solida posizione competitiva. L’innovazione aperta agisce contemporaneamente su più fronti: da un lato consente l’accesso a nuovi mercati, dall’altro riduce i costi in R&S, soprattutto in termini temporali, favorendone l’attività.
Ad oggi, quindi, la maggiore sfida nella gestione dell’innovazione si svolge all’interno delle aziende stesse. Il cambiamento di paradigma dall’innovazione chiusa all’innovazione aperta rappresenta la barriera più difficile da superare ma ne è un passaggio imprescindibile per la sostenibilità aziendale.
Se questo concetto vale per le grandi aziende, lo stesso è tanto più vero se collocato in ambito di Piccola Media Impresa. In Italia, l’esperienza Open si sta progressivamente diffondendo nel tessuto industriale italiano, in special modo nei settori caratterizzanti il Made In Italy ed ad alta intensità di beni immateriali. In questi mercati, la ricerca di idee, nuove soluzioni piuttosto che il coinvolgimento del cliente nel processo produttivo, sono elementi facilmente collocabili in un percorso di tipo aperto.
Per implementare tale paradigma nelle PMI, come nel caso delle grandi aziende, si tratta di superare la difficoltà di introdurre, prima ancora che di effettuare investimenti in tecnologie, nuovi percorsi che inducano un cambiamento culturale volto a percepire l’Open Innovation come un’opportunità e non una minaccia.
Un primo strumento idoneo a tale scopo è stato individuato nel Crowdsourcing, un processo che sfrutta l’intermediazione tecnologica per raccogliere e utilizzare risorse, quali conoscenze, idee, know-how ma anche mezzi finanziari, all’esterno dell’organizzazione, in modo veloce, semplice ed economico. Il termine “Crowdsourcing” è stato coniato da Jeff Howe con il famoso articolo “The Rise of Crowdsourcing”, pubblicato sulla rivista Wired nel giugno del 2006, definendolo come “l’atto di prendere un lavoro tradizionalmente svolto da un soggetto designato (solitamente un dipendente) ed esternalizzarlo ad un vasto gruppo di soggetti generalmente non definiti, attraverso un invito aperto (open call)” .
Dalla sua diffusione nella pratica, sono state elaborate diverse interpretazioni come pure la terminologia ha subito una forte evoluzione.
Ciò che è importante sottolineare, tuttavia, è che tale termine, utilizzato soltanto negli ultimi decenni, descrive un fenomeno presente già sul finire del 1800. Una prima applicazione, infatti, risale al 1884 quando l’Oxford English Dictionary è stato realizzato grazie al contributo di 800 scrittori che ne hanno catalogato le parole inviandone la definizione su fogli di carta. Nel 1954, poi, Enrico Mattei lanciò un contest per l’elaborazione del logo di quello che poi diventerà il marchio Eni, ovvero il cane a sei zampe. A ben vedere, ciò che è cambiato negli anni è soltanto il canale di interazione.
Con l’avvento di Internet, il Crowdsourcing si è sempre più strutturato ed organizzato, in quanto le nuove tecnologie consentono l’accesso e la partecipazione di qualsiasi persona da ogni parte del mondo.
In ambito aziendale, gli obiettivi possono essere molteplici: risolvere problemi scientifici o di business, integrare gli input dei consumatori con le attività di commercializzazione, promuovere campagne sociali per la raccolta fondi, e molto altro ancora.
Il Crowdsourcing si concretizza, pertanto, in un processo attraverso il quale un’azienda esternalizza una parte della sua attività ad un vasto insieme indefinito e distribuito di persone, attingendo ad un grande numero di attori individuali e non legati fra loro.
Tuttavia, esso non si prefigura come una strategia unica. Si tratta di un termine generico per un gruppo molto vario di approcci, che condividono un attributo evidente in comune: tutti dipendono dalla folla, ovvero dal “crowd”.
L’elemento principale che sancisce il successo o il fallimento di un progetto di Crowdsourcing è infatti il gruppo, o come meglio viene definito “la folla” che deve possedere due requisiti fondamentali: incentivo alla partecipazione e conoscenze adeguate, essenziali per il raggiungimento dell’obiettivo.
Il crowdsourcer, invece, è il soggetto che avvia l’iniziativa di Crowdsourcing; esso può essere identificato come un individuo, un’impresa, un’istituzione od un’organizzazione no-profit.
Ogni processo di Crowdsourcing, poi, si compone di quattro fasi:
1. il crowdsourcer individua il task ovvero il compito da eseguire od il problema da risolvere;
2. il task viene comunicato al crowd, solitamente mediante pubblicazione su piattaforme online;
3. il crowd, auto selezionandosi, risolve il task sviluppando un progetto;
4. il crowdsourcer individua la soluzione appropriata (o aggrega più soluzioni) ed assegna il premio al vincitore.
Questa sequenza basilare può essere più o meno integrata da altri fattori a seconda del contesto considerato.
Tale attività, quindi, consente ad un’organizzazione di entrare in contatto con un gruppo indefinito e variamente composto di soggetti, con diversi livelli di competenze e professionalità.
Data l’eterogeneità dei modelli e ambiti applicativi, i benefici e i limiti che derivano dalla sua implementazione dipendono dalle specificità del caso concreto di volta in volta considerato.
In generale, tuttavia, è possibile individuare alcune caratteristiche comuni che lasciano trasparire una molteplicità di possibili vantaggi.
In particolare, rispetto ai tradizionali modelli di business, il Crowdsourcing si propone come strumento molto flessibile che permette una dinamica di gestione della “forza lavoro”: il crowd è, infatti, disponibile “su richiesta”, ovvero nel momento di necessità. Questo implica una riduzione dei costi di contrattazione per la ricerca del personale, con assenza di vincoli contrattuali, pur senza limitare la “qualità” e la “professionalità” delle competenze apportate dalla folla.
A ciò si aggiunga una successiva diminuzione dei costi legata alla remunerazione del risultato ottenuto: molto spesso per gli individui che partecipano a iniziative di Crowdsourcing la “ricompensa” al loro lavoro non è la motivazione principale, stimolati invece da fattori sociali, quali ad esempio il sentirsi parte di un progetto o di una community.
In contrasto, tuttavia, non tutti i progetti possono essere risolti con questa modalità e l’assenza di vincoli contrattuali potrebbero disincentivare la partecipazione del crowd.
In alcuni casi, infatti, il modello potrebbe non essere in grado di assicurare una ricompensa per l’attività prestata dalla folla: il rischio di comportamenti opportunistici e la scarsa possibilità di controllo sui partecipanti aumentano l’incertezza sul risultato finale.
Vantaggi e svantaggi vanno, pertanto, attentamente ponderanti e contestualizzati seconda la specifica situazione.
Le evidenze riportate dai dati di mercato e dallo studio di casi pratici convergono nel ritenere il Crowdsourcing uno strumento utile per l’implementazione delle logiche Open Innovation nelle PMI.
Esso, infatti, consente alle imprese di sopperire alla mancanza di risorse interne, attingendo conoscenze e competenze da soggetti esterni l’organizzazione, in modo flessibile ed efficace.
A differenza delle grandi aziende, infatti, organizzazioni di dimensioni limitate ricorrono solitamente ai soli investimenti di R&S attuati entro i confini aziendali come strategia d’innovazione. Le spesso innumerevoli barriere alla collaborazione esterna, fra cui la carenza di risorse finanziarie ed umane, ridimensionano le prospettive di crescita in ottica conservativa.
Il Crowdsourcing appare, quindi, come un’ottima alternativa: con costi relativamente bassi, le PMI possono accedere ad un bacino potenzialmente illimitato di contributi. Tuttavia, le funzionalità di questo strumento vanno attentamente ponderate nel sollecitare la folla e soprattutto nel riconoscere che il risultato dipende dal corretto allineamento tra compito richiesto e tipologia di Crowdsourcing.
Infatti, i dati dimostrano che l’impatto sulle performance di business è tanto maggiore quanto più lo strumento viene attentamente integrato nel processo gestionale.
Pertanto, utilizzare percorsi strutturati di Crowdsoucing può essere una modalità certamente più efficiente rispetto alle forme tradizionali di intermediazione per l’introduzione di innovazione nei processi di sviluppo aziendali.
Tant’è che, se le grandi aziende possono idealmente disporre di una molteplicità di strategie, per le Piccole Imprese il Crowdsoucing rappresenta invece un tassello fondamentale con cui agire in ottica Open per essere competitiva nel mercato globale.




 Valentina Garonzi


Valentina Garonzi