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LA GRANDE CONVERGENZA ECONOMICA GIAPPONESE

Elisabetta Longo
Laurea triennale in Economia e Commercio
conseguita il 11/09/2015

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Raramente in economia - come nella vita - avvengono i miracoli. Uno di questi, però, nel secolo scorso, accadde in Giappone.
Nel 1868, il PIL pro-capite della terra del Sol Levante era una piccola frazione – circa un quinto – del PIL pro-capite dei principali Paesi europei.
Solo un secolo più tardi, tra il 1980 e il 1990, lo stesso indicatore mostrava un Giappone in cima alla classifica dei Paesi più ricchi e appena alle spalle degli Stati Uniti. La crescita del suo PIL pro-capite esplose nel secondo Dopo-Guerra, ma il processo di sviluppo iniziò molto tempo prima. Esso diede luogo a profondi cambiamenti non solo a livello economico, ma anche istituzionale, politico, sociale e culturale.
Oggi, il Giappone può essere considerato il primo esempio di “catching-up from far behind” (traduzione italiana: recupero economico, partendo da molto lontano) . Altri Paesi, principalmente localizzati in Asia meridionale, impararono in seguito a replicare le sue grandi performance. La domanda a cui si vuole rispondere, pertanto, è: Come ci riuscì il Giappone?
In economia ci sono due filoni che aiutano a spiegare “la Ricchezza delle Nazioni”: le teorie della crescita economica e le teorie dello sviluppo economico. Le prime, impiegate per studiare la ricchezza delle nazioni già avanzate, sono piuttosto astratte e studiano analiticamente processi come quello relativo all’accumulazione del capitale. Il secondo filone di teorie è meno formale in termini matematici, dal momento che prende in considerazione più fattori e cause e dal momento che pone assunzioni meno restrittive. Esso è molto utile per indagare i cambiamenti sottostanti alla trasformazione di un Paese povero in uno ricco.
Qualsiasi teoria richiede un certo grado di astrazione ma se si vuole comprendere che cosa determini la crescita economica, si dovrebbero considerare quattro fattori:
a) L’accumulazione del capitale,
b) Il commercio internazionale,
c) Il cambiamento strutturale, l’elemento sottostante a diversi modelli di sviluppo.
d) L’accumulazione della conoscenza (e della tecnologia).
Ci sono numerose teorie – più o meno formali - che fanno uso di più di uno di tali fattori di base. Alcune di queste sono anche in grado di far interagire i diversi elementi, offrendo una spiegazione a più livelli, ma coerente. Tra queste teorie complesse troviamo il paradigma “delle oche volanti” (Flying Geese Paradigm, Akamatsu, 1962). Esso sembra particolarmente d’aiuto nello spiegare il miracolo della crescita giapponese. Non è una teoria matematicamente formalizzata e concentra la sua attenzione su tre fattori dei quattro sopracitati: l’accumulazione della conoscenza, il commercio internazionale e l’implementazione di continui cambiamenti in economia.
Sviluppato da Akamatsu (1962), il paradigma “delle oche volanti” mostra come lo sviluppo tecnologico segua una gerarchia: alcune tecnologie sono più semplici da implementare, altre più complesse. Per le nazioni arretrate il processo di apprendimento può essere reso più rapido, attraverso l’adozione di tecnologie già in uso nei Paesi avanzati. Se s’inizia da produzioni a bassa tecnologia e si prova a spostarsi verso produzioni ad alta tecnologia, si sarà in grado di generare più valore aggiunto. Questo promuoverà la ricchezza e renderà possibile il processo di crescita economica.
Focalizzandosi sullo sviluppo graduale, Akamatsu in un lavoro pionieristico (1944) distinse tre fasi di base:
a) La prima, in atto quando una regione è povera e tende ad importare beni di consumo, che non sono producibili all’interno del Paese a causa dell’assenza della conoscenza tecnologica.
b) Nella seconda fase, il Paese acquisisce alcune abilità ed è in grado di produrre beni di consumo essenziali, importando beni capitali e materie prime. In questo modo, inizia il processo di apprendimento tecnico.
c) Infine, il Paese espande ulteriormente la produzione, sfruttando il canale commerciale dell’export. Esso sviluppa strategicamente nuove industrie, dopo aver esaminato e adottato modelli di produzione già utilizzati nei paesi leader. All’inizio, l’export si concentra su prodotti a bassa tecnologia, ma l’obiettivo è produrre beni più sofisticati.
L’espansione delle industrie e del commercio giapponesi, e poi la diffusione delle sue tecnologie acquisite, sembra riflettere strettamente questi stadi della crescita. Per questo motivo il paradigma di Akamatsu è considerato una spiegazione effettiva del processo di crescita di lungo periodo del Giappone (e più tardi dell’Asia dell’Est).
Tale paradigma, a differenza di altri, non è interamente proposto attraverso un’analisi quantitativa. Esso si coniuga con cambiamenti qualitativi che non appaiono sempre in cifre. Ad ogni modo, alcuni dati statistici potrebbero aiutare a comprendere la stretta connessione tra il paradigma e l’esperienza giapponese. Per esempio, guardiamo al commercio internazionale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, i dati mostrano ancora un grande deficit commerciale: il Giappone era al tempo un’economia distrutta, con una scarsissima produzione civile. Tra il 1950 e il 1964, il deficit commerciale del Giappone fu sistematicamente negativo, ma con un trend in crescita. Durante il 1960 la bilancia commerciale cambiò segno, e non per caso. L’idea di sviluppo che i pianificatori giapponesi provarono a implementare (anche in disaccordo con i consulenti americani) fu quella di promuovere sempre più le industrie con elevati livelli di export (per migliorare la competizione e la produttività) connettendo, nel contempo, il Giappone ai mercati internazionali dei prodotti e della tecnologia. Tale modello basato sul ruolo trainante dell’export (“Export-led”, Oxfordrefrence, @2015) fu un’idea relativamente nuova. All’epoca, altri modelli di sviluppo, generalmente basati sulla sostitutzione delle importazioni (“Import-substitution”, Oxfordrefrence, @2015), prevalevano in differenti parti del mondo. Più commercio internazionale e più export all’interno di esso significavano un cambiamento sostanziale nella composizione delle industrie e dei prodotti. I dati relativi all’export industriale disaggregato dal 1965 in avanti parlano chiaro.
L’evoluzione del rapporto tra l’export per settore e l’export totale di cinque settori industriali mostra i profondi cambiamenti strutturali dell’export giapponese. Negli anni ’60 e nella metà degli anni ’70 prevalevano ancora le industrie a bassa tecnologia, come le industrie tessili e chimiche. Però, con l’accumulazione della conoscenza tecnica straniera, dopo la metà degli anni ’70, l’industria automobilistica decollò, insieme con le industrie che producevano macchinari elettrici e non elettrici (in prevalenza elettronici). Inoltre, essi erano settori con una crescente domanda internazionale. Il Giappone fu avvantaggiato da questo fatto: la sua quota di export passò dal 10% al 70% in meno di due decadi. I nuovi settori videro la nascita di grandi industrie che diventarono presto compagnie multinazionali, come Toyota e Honda, nell’industria automobilistica, o Sony in quella dei macchinari elettrici. Esse dominarono il mondo non solo per le loro vendite crescenti, ma anche per il loro modo innovativo di fare management, attraverso i principi del “Just in time” (Appena in tempo), “Total quality control” (Controllo totale della qualità) e simili innovazioni organizzative (Shingo, 1991, Masaki 1986). Questi nuovi metodi ridussero i costi, migliorarono la competitività e promossero ulteriori economie di scala.
Il Giappone è, pertanto, un esempio di successo di “recupero economico, partendo da molto lontano”. Il paradigma sembra in grado di spiegare piuttosto bene quello che accadde. Tuttavia, esso è sempre un buon modello che, una volta applicato, garantisce il processo di recupero?
La conoscenza teorica di un modello non garantisce che un Paese sia poi in grado di implementarlo. Ci sono alcune precondizioni chiave che devono essere soddisfatte, prima che il modello prenda avvio anche a livello ipotetico. Una di queste è la capacità di assorbire alti livelli di conoscenza. Un Paese potrebbe intraprendere il processo di crescita economica con successo, se è economicamente arretrato in termini di reddito, ma non eccessivamente in termini di conoscenza. Questo processo, implica un alto livello di scolarizzazione e richiede tempo. Se tale precondizione è però soddisfatta, il paradigma di Akamatsu sembra più incline al successo quando sono in atto grandi cambiamenti tecnologici, piuttosto che durante fasi di stagnazione tecnologica. Il Giappone dal 1951 al 1996 si sviluppò in settori relativamente nuovi, come quello automobilistico ed elettronico. In tal modo, il Giappone invase il mondo con i propri prodotti senza danneggiare la quota di export degli altri Paesi.
I modelli e i paradigmi, pertanto, sono validi per spiegare la realtà e per guidare le decisioni economiche, anche se, alla fine, essi devono essere inseriti in un preciso contesto storico. Il paradigma elaborato da Akamatsu non fa eccezione. Tuttavia, il fatto che altri Paesi asiatici l’avessero adottato decenni più tardi, lo rende, se non altro, un interessante oggetto di studio.


 Elisabetta Longo


Elisabetta Longo